venerdì 28 dicembre 2018

Cuba, la rivoluzione fa sessanta

Museo de la Revolucion (L'Avana): pannello celebrativo del trionfo di Castro e i barbudos © Luca Ferrari
Il dittatore è in fuga, ha abbandonato Cuba. Trionfano i barbudos di Fidel Castro e Che Guevara. Sessant'anni fa, il 1 gennaio 1959, sull'isola caraibica trionfava la rivoluzione del popolo.

di Luca Ferrari

L'Avana, capodanno 1959. Lo spietato dittatore Fulgencio Batista è scappato. Ha abbandonato l’isola di Cuba. L’esercito ribelle guidato da Fidel Castro (1926-2016) è ormai alle porte. È il trionfo del popolo. È il trionfo di un pugno di uomini che con caparbietà, coraggio e tanti sacrifici, ha saputo ribaltare una situazione impossibile. Riprendersi ciò che era loro, strappando la propria terra all'avidità delle lobby straniere pullulanti d'azzardo e prostituzione. I barbudos hanno vinto. Davide ha sconfitto Golia. 1 gennaio 1959, una nuova alba per Cuba e forse per il mondo intero.

Fidel Castro, Che Guevara, Cammillo Cienfuegos. La storia rivoluzionaria di Cuba splende ancora nella memoria di quei tre indomiti condottieri. Uno dei rari casi in cui il potere si è inginocchiato all’iniziativa popolare, unita e decisa. Il dopo è un’altra storia e come in tutte le guerre civili si è passati alla resa dei conti (legale e non). Nato nella repressione più atroce dell’attacco fallito alla caserma Moncada, il Movimento del 26 Luglio riuscì nell’impresa di sradicare un potere che, forte dello spregiudicato appoggio a stelle e strisce, sembrava indistruttibile.

Oggi come allora si festeggia la fine di quell'epoca. Da allora sono passati sessant’anni e di quegli uomini che fecero la Storia è rimasto solo Raul Castro, fratello del Leader Maximo, scomparso due anni or sono. In queste sei decadi Cuba ne ha vissute parecchie. Dalla storica alleanza con l’Unione Sovietica di Nikita Chruščëv e la crisi dei missili, all’anonimato più totale fino all’apertura di Barack Obama che allentò le (ridicole) maglie  dell'embargo ancora in vigore, poi nuovamente soffocata dal nuovo e attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Che destino attende ora l'isola caraibica?

Siamo arrivati al 2019 e di quell'atmosfera rivoluzionaria c'è ancora troppo o forse troppo poco, a seconda dell'aera geografica. Per noi occidentali sinistrorsi la rivoluzione cubana resta un mito. Un'idea che ha trovato la strada della concretezza (molto atipico per la Sinistra italiana), prendendo il toro (dittatore) per le corna e mandandolo al tappeto con decisione, sacrificio e, in quel caso, lotta armata. Ma più che la Storia, la rivoluzione Castrista rappresenta una speranza che continuerà a illuminare il cammino di chiunque voglia (davvero) sfidare e vincere qualsiasi tirannia.

Cuba è ancora un mondo a parte. Dei tanti reportage realizzati in giro per il mondo, il mio viaggio a Cuba resta senza dubbio quello che mi ha più lasciato stordito. Ancora oggi, nell'epoca dei social network, a parlare di Cuba vengono subito in mente loro, quei due lì. Fidel Castro e Che Guevara. Stratega e politico il primo, idealista e guerrigliero il secondo. Due leader per una stessa causa. I due leader che si conobbero in Messico dopo che Fidel era stato scarcerato per grazia di Batista (il più grande errore del presidente cubano, ndr), e da allora hanno marciato fianco a fianco fino alla liberazione dell'isola e il trionfale ingresso nella capitale.

Cuba cambiò il corso del proprio destino quando ancora doveva iniziare un decennio fondamentale per la cultura e la contestazione. Cuba era già avanti a tutti. Mentre le menti europee dovevano ancora attendere, i cubani lottarono per la vera libertà e dimostrarono al mondo intero che nessun dittatore è al sicuro se il popolo è unito. La lezione fu grandiosa. Quell'epopea fu incredibile, bissata poi dal contrattacco vincente all'invasione statunitense nella baia dei Porci, nell'aprile del 1961. Un altro trionfo di Fidel Castro. Un altro monito di Cuba contro il vicino e potentissimo aggressore: questa è casa nostra, guai a chi ce la tocca!

Nel terzo millennio Cuba è ancora un mondo a parte. Ogni nazione ha le sue guerre e la sua memoria eppure la vittoria di Fidel Castro sembra appartenere a noi tutti affamati di libertà, quasi più dei nostri stessi partigiani. Nella vittoria del Movimento del 26 luglio contro lo status quo sembra esserci una porzione di ciascuno di noi. Sessant'anni dopo, quell'impresa militare ci fa ancora ribollire il sangue fin fuori dagli occhi. Al posto di Fidel, la maggior parte di noi avrebbe abbandonato subito dopo il naufragio della leggendaria Granma, l'imbarcazione con cui Castro e i suoi seguaci "arrivarono" a Cuba dal Messico, accolti dalle mitragliate di Batista.

Camminare per l'Avana o farsi una nuotata nelle acque cristalline della baia dei Porci non è come passeggiare per Madrid o sguazzare nel mare salentino. Lì c'è qualcosa di più. Lì c'è un sentimento che ti scorre dentro tutto il perimetro umano-sentimentale, qualcosa che immagino sia molto simile a chiunque calpesti la sabbia della fredda costa normanna, lì dove gli Alleati sorpresero i Nazisti e diedero vita a una trionfale marcia di guerra abbattendo l'armada hitleriana. Quella però era la nostra guerra. L'odore di morte dei campi di sterminio era il nostro nemico da piegare, Cuba invece era lontana migliaia di miglia più un oceano.

Eppure è esattamente così. Sei lì, a Cuba. Entri nell'Hotel Nacional e vedi le foto appese dei barbudos. Guardi i loro volti, stanchi e felici. Guardi quelle facce e ti interroghi su come siano riusciti in una simile impresa. Dopo anni passati a nascondersi nella boscaglia, erano finalmente arrivati a L'Avana e qui soggiornarono in quelle prime e convulse giornate. Il dittatore, da bravo vigliacco quale sempre è, era scappato. Adesso toccava a loro rimettere le cose a posto. La Storia (obiettiva) riconoscerà meriti e demeriti. Anche la rivoluzione cubana avrà i suoi torti e farà i suoi sbagli, ma è stato un bene che ci sia stata. Ancora oggi ci inorgoglisce a parlare della rivoluzione cubana.

Ancora oggi, a distanza di sessant'anni dal trionfo definitivo dell'esercito guidato da Fidel Castro, la rivoluzione cubana ci fa ancora drizzare il sangue fin fuori dalle orbite. Nel 1959 il mondo era diversissimo da ciò che è oggigiorno. Il 1 gennaio 1959 il popolo di Cuba scrisse una coinvolgente pagina di Storia che ancora oggi è in grado di ispirare uomini e donne da ogni dove. Oggi, in un mondo prevaricato da politici senza ideologia e masse ipnotizzate da facili slogan, la sessantennale rivoluzione cubana ha ancora voglia di raccontarsi. Oggi, 1 gennaio 2019, la rivoluzione cubana si tramanda con i suoi eroi e le sue azioni. Noi siamo qui, mai sazi di quella epica impresa rivoluzionaria. Libertà o muerte!

Cuba, on the road verso la Baia dei Porci © Luca Ferrari
Cubal'Avana Hotel Nacional: in memoria del glorioso 1 gennaio 1959 © Luca Ferrari
Cubal'Avana Hotel Nacional: in memoria del glorioso 1 gennaio 1959 © Luca Ferrari
Museo de la Revolucion (L'Avana): gigantografia di Fidel Castro © Luca Ferrari
Museo de la Revolucion (L'Avana): sventola fiera una gigantesca bandiera di Cuba © Luca Ferrari

lunedì 24 dicembre 2018

Il regalo più bello è una piccola collina immacolata

Finlandia, bosco © Visit Finland
Lassù, fra le aurore boreali della Finlandia. Per documentare la magia paesaggistica di Madre Natura e trasformarla in sensazioni e colori.

di Luca Ferrari

Un nuovo reportage mi attende. Poco prima di partire, vengo richiamato da Facebook. C’è una e-mail che non avrei saputo immaginare più privilegiata. È la prima risposta di un’amica che non sentivo da un'eternità. Faccio appena in tempo a stampare le sue parole e farmi travolgere dal mega-contagio della sua prima frase stellata, che sono già a vagare sopra l’Europa.

Nello sfogliare la lettera, scopro che mi sto recando nel medesimo posto dove ha iniziato a risiedere. A Kouvola, nella regione del Kymenlaakso, Finlandia meridionale. Ora lei vive in una zona che si chiama Pikku-Palomäki, e che letteralmente significa “piccola collina di fuoco”.Non saprei quantificare i giorni del tempo trascorsi da un inconsapevole e involontario addio. Non sono sorpreso di questa coincidenza. Semmai, emozionato. Ho intenzione di andare fino in fondo, e toccare il marzapane di quei nuovi boschi.

Mentre sono ancora sospeso nel cielo, riguardo le foto appese alle tante botole temporali della mia mente. Una volta arrivato a terra poi, ritorno al presente e faccio il mio lavoro. Così, tra un appunto e uno scatto, due chiacchiere e un tea caldo, vengo risucchiato da una sensazione di familiarità, e via via travolto da un sentimento di essere affacciato alla finestra più segreta delle nostre pianure più sotterranee.

Nel vedere un gruppetto di ventenni, ripenso a quando la gente non capiva (né capisce) perché ricordiamo così volentieri gli anni più tormentati delle nostre esistenze. La risposta è nella storia di una ragazza come lei, che rese ogni sogno irrealizzabile una promessa mantenuta. Un messaggio che ha sempre sancito la sincerità di quello che non abbiamo mai smesso di essere.

Inizia a cadere qualche granello bianco intanto. Istintivamente allargo le braccia, sentendomi come l'intero pianeta Terra ricevitore del concerto celeste. Senza troppe bussole mi presento al cospetto di altissimi esemplari di abeti. Registro le mie impressioni tingendo il manto nevoso di qualche goccia d’inchiostro della mia inseparabile stilo.

Sento come un brivido cavalcarmi la cute. Attraverso in pochi minuti scenari che mi rimandano alle dolci alture dei boschi alpini così come alle atmosfere più gotico-arboree. Senza emettere nemmeno un fiato, mi metto a correre. Leggero e spaesato. Glorioso e delicato. Ogni orma che mi lascio alle spalle, pare avere sembianze umane.

Esco dal bosco. Poco dopo sono a Pikku-Palomäki. Da queste parti la luce non può che appartenere a qualche neo-nottata dagli arcobaleni più dolcemente ribelli e immortali. Prendete nota. Queste non saranno certo le ultime parole che mi sentirete rivolgere a te e al mondo. Posso confidarti, in via del tutto acquatica, che, Mi fai piangere e mi fai sorridere. E non sai che felicità parlare con te. Qui. Dopo tutto questo tempo.

martedì 11 dicembre 2018

Italia-Austria, fascino da confine

Versciaco (BZ), a ridosso del confine con l’Austria © Luca Ferrari
Assenza di confini significa in primis maggiore libertà, ma anche un po' meno fascino.

di Luca Ferrari

Iniziava il viaggio. Si salutava l’Italia, pronti per oltrepassare la frontiera. Emozionati, sì.  Con la carta d’identità pronta in mano. Si sarebbe raccontato un viaggio all’estero. Un’antica emozione il cui fascino è stato cancellato dall’unione degli stati europei. Forse più praticità. Di sicuro, meno stupore per chi è alle prime armi.

Superata la placida San Candido (BZ), svolto a destra, direzione Austria. Mi resta ancora un paese prima di cambiare nazione, Versciaco. Forse a molti questo nome non dirà nulla, ma per chi conosce la storia, o ha ricordi della II Guerra Mondiale, magari tramandati dai nonni, presso questo paese c’è un aneddoto molto particolare.

Fra il 1939 e 1942 venne qui costruito il cosiddetto Sbarramento di Versciaco (ted. Vierschach) è uno degli sbarramenti del XV Settore Pusteria, e che andava a comporre il Vallo Alpino in Alto Adige (detto anche “linea non mi fido”), un complesso sistema di fortificazioni eretto per difendere i confini italiani da una possibile invasione da parte della Germania nazista

Mi guardo intorno mentre la macchina si lascia alle spalle prati verdi, montagne innevate (alcune) e gli ultimi metri italici. Tutt’intorno boschi (e dei locali davvero caratteristici della zona) e un binario su cui galoppa un treno di pochi vagoni. Manca sempre meno. Eccomi. Ma che succede? Ah già. L’Europa Unita. Niente più dogana.

Senza entrare in contesti geopolitici, mi ritrovo sul confine italo-austriaco parecchi anni dopo la mia ultima visita. Parecchi, dire. Un tempo era molto diverso. C’erano ancora le frontiere. C’era ancora la dogana. In Italia. Uno spazio di terra neutrale, e quindi nuovo controllo, ed ecco l’Austria.

Avuto l’ok dai funzionari stranieri, prima tappa: la banca, per  cambiare le lire. I soldini messi da parte venivano trasformati in queste nuove monete: gli scellini. Nuove banconote. Nuovo conio. Tutto differente. Tutto sorprendente. Già questa era un’avventura. Conservare ancora una moneta che adesso non esiste più.

Si girava l’Austria. Capendo poco la lingua, e quando si pagava, subito a fare i conti per capire se fosse più cara o meno dell’Italia. Ogni viaggio oltre confine, era sempre un nuovo dialogo con un’altra cultura. Arricchito dalle loro peculiarità più tangibili. Non c’era il satellitare. Si sbagliava strada. Si chiedeva informazioni sorridendo.

Adesso c’è solo un cartello che mi indica in quale stato sono. Gli edifici circostanti, per la maggior parte, sono dimessi. Molte macchine vengono qui a fare benzina (che costa meno rispetto ai nostri distributori). Compro qualche cartolina. Pago in euro, ma il francobollo è differente. Ritorno nella terra natia. C’è meno gusto, lo ammetto.

Versciaco (BZ), a ridosso del confine con l’Austria © Luca Ferrari

venerdì 30 novembre 2018

Londra, il quartiere di Charlie Chaplin

Londra, la casa di Charlie Chaplin a Walworth © Luca Ferrari
Il 16 aprile 1889 a East Street, nel sobborgo londinese di Walworth, nacque uno dei più grandi attori della storia del cinema, Charlie Chaplin.

di Luca Ferrari

La vita di un quartiere inglese. Quasi un mondo a parte dal turismo esasperato del centro città dove è più facile sentir parlare italiano che anglosassone. Tra mercati e piccoli negozi aperti ventiquattrore, viaggio tra i vicoli dove nacque uno dei più grandi attori della storia del cinema. Charles Spencer Chaplin (1889-1977), meglio conosciuto come Charlie Chaplin.

Lo sbarco al Gatwick Airport avviene a mezzanotte. Troppo tardi per iniziare a capire Londra. Salito su un taxi mi limito a rimanere sorpreso nel vedere, nonostante la temperatura non sia ancora estiva per me mediterraneo, ragazzi e ragazze che bevono allegramente fuori dai pub in maniche corte. L’oscurità inglese mi confonde e quando il veicolo si ferma in Westmoreland Road, non ho idea di cosa ci sia là fuori.

Il sapore di un kebab notturno riesce a placarmi gli stimoli della fame lasciati in sospeso ancor prima della partenza. Il sapore della carne con le verdure e lo yogurt sembra la metafora perfetta per dove mi trovi in questo momento. Un mix culturale. E i primi bocconi, assaporati sulla strada in attesa di rientrare in casa, rafforzano questa sensazione.

Non so ancora cosa ci si sia lì vicino. Non è la Londra che mi aspettavo. Il quartiere di Walworth ha più i connotati di un rione dell’Italia meridionale o i lineamenti di un bazar aperto africano. Sembra che tutti si conoscano. I grandi autobus a due piani, sempre pieni, appaiono quasi come corpi estranei.

Arrivato all’East Street Market, un oblò azzurro sulla palazzina adiacente attira il mio sguardo. Avvicinatomi per leggere la scritta interna, leggo: “Charlie Chaplin 1889-1977, Walvorth-born comic genius”. Una scoperta improvvisa. A pochi metri da me, da dove ho dormito questa notte, ha mosso i primi passi l’interprete del Monello (1921), indiscusso capolavoro interpretato e diretto dall’attore inglese, insieme al giovanissimo Jackie Coogan.

Mentre sono ancora fermo sotto l’abitazione del Grande dittatore (1940, altro celebre personaggio interpretato dall’attore, salace satira del nazismo e di Adolf Hitler), mi ritrovo a essere d’impaccio nel traffico umano, così scelgo una bancarella e investo le mie prime sterline

Nella brulicante capitale inglese ci sono ancora quartieri dal sapore mediterraneo e globale. Culture senza distinzioni. Provo ad alleggerire i miei pensieri, convinto di poter parlare una lingua universale. E il mio primo gesto verso una finestra è stata forse la mia miglior comunicazione di questi ultimi giorni.

Londra, Walworth © Luca Ferrari
Londra, Walworth © Luca Ferrari
Londra, Walworth © Luca Ferrari
Londra, Walworth – Westmoreland © Luca Ferrari
Londra, la casa di Charlie Chaplin a Walworth © Luca Ferrari

lunedì 26 novembre 2018

Dobbiaco, sinfonia montana

Dobbiaco, la chiesa di S. Giovanni Battista © Luca Ferrari
Viaggio fra le rilassanti stradine del comune di Dobbiaco, nella provincia autonoma di Bolzano, dove l'artista tedesco Gustav Mahler compose due sinfonie e il Canto della Terra.

di Luca Ferrari

Rientrato in Italia dopo una scampagnata in Austria, sono già un po’ triste all’idea di rifare tutta la strada del ritorno e abbandonare le ammalianti montagne alto-atesine, che una cappelletto alla mia destra mi rapisce. Fa quasi tenerezza a vederla. Ne devo sapere di più. Invece di girare a San Candido, proseguo diritto e raggiungo Dobbiaco.

Qualche informazione all’ufficio turistico e scopro di avere appena ammirato la tappa finale della Via Crucis delle cappelle (realizzate nel 1519 da Michael Parth) della passione. Cinque in tutto, che insieme costituiscono il Sacro Monte. Quella che mi ha stregato è la cappella di Lerschach, consacrata a San Giuseppe.

Nel congratularmi con la mia curiosità che mi ha portato fino a Dobbiaco, ne approfitto  per fare un giro nel paese e godermi qualche (si fa per dire) minuto davanti all’imponente Cima Nove. Un colosso dolomitico che sfiora i tremila metri di altezza, ed è così chiamato per i nove pennacchi sulla sua sommità.

Dobbiaco uno dei comuni delle Tre Cime, situato a 1256 metri sopra il livello del mare, in Val Pusteria nella Provincia Autonoma di Bolzano. Giace in una vallata, ben protetta dalle Dolomiti (Cima Nove, Monte Serla) da una parte, la catena delle Alpi dei Tauri occidentali e delle Alpi Carniche (Cornetto di Confine, Corno Fana), dall’altro.

Caratteristica della sua pozione geografica, è che Dobbiaco si trova all'incrocio tra le più importanti vie di comunicazione che portano da Venezia fino alla Baviera e dalla Valle dell'Adige alla Valle della Drava. Dopo una pausa culinaria a base di speck (tipico del posto) e formaggio, una candela accesa nella chiesa di S. Giovanni Battista, al centro del paese  mi imbatto nella statua del celeberrimo musicista Gustav Mahler (Kalischt, 1860 – Vienna, 1911 ), compositore e direttore d'orchestra austriaco di origine boema.

Sotto la statua, una targa dice: “Gustav Mahler trascorse le sue ultime estati: 1908, 1909 e 1910 in Dobbiaco. Qui vennero composte alcune delle sue opere più importanti: Il Canto della Terra, la Nona Sinfonia e le bozze della Decima. Questo monumento è stato realizzato nel 1983 dallo scultore Bojan Kunaveò di Lubjana per il comune di Dobbiaco”.

Dobbiaco, panoramica appena fuori dal paese © Luca Ferrari
Dobbiaco (BZ) © Luca Ferrari
Dobbiaco (BZ), la statua di Gustav Mahler © Luca Ferrari
Dobbiaco, piazzetta con fontana © Luca Ferrari
Dobbiaco (BZ), scorcio cittadino © Luca Ferrari
Dobbiaco (BZ), targa sotto la statua di Gustav Mahler © Luca Ferrari

mercoledì 21 novembre 2018

Guglielmo Botter, l'arte urbana della china

Pittsburgh, Fort Pitt Bridge Pitt – disegno a china di © Guglielmo Botter
L'arte a china dell'artista trevigiano Guglielmo Botter, specializzato nei paesaggi urbani degli Stati Uniti. Un viaggio iniziato nella sua amata Pittsburgh... "verso la fine del XIX secolo".

di Luca Ferrari

Un tocco. Uno schizzo. Un appostamento. Una prospettiva ancora inedita. L’uomo è lì. L’artista è dentro. La mutazione è già avvenuta. Adesso è un tutt’uno costante e sempre proiettato verso nuovi orizzonti urbani. L’umanità è intrisa di memoria. I ricordi echeggiano nel nuovo tratto. Oggi le strade, i parcheggi. Domani i canyon, i canali, le piastrelle dei ponti. Oggi è domani. Fari, gallerie, archi di trionfo. Un tratteggio instancabile. Un artista che ha voglia di raccontare ciò che fa. Lui disegna a china. Guglielmo Botter (Treviso ’66), raffigura paesaggi urbani con una semplice matita a china.

L’arte chiama l’arte. L’arte ispira l’arte. È successo esattamente questo, e nel modo più semplice possibile. Da un articolo sul mondo dell’Università Internazionale dell’Arte di Venezia a un viaggio umano a tu per tu con la propria chiave di espressione. Lì nel mezzo, un disegnatore a china. Ogni anno fa fagotto e abbandona la culla del Tiramisù destinazione Pittsburgh (Pennsylvania). Il suo nome è Guglielmo Botter. Non è un artista nel senso più banale e bohémien del termine. Oltreoceano ci sono metà delle sue radici. Accanto a lui, nei suoi costanti viaggi negli States, c’è sempre la sua dolce famiglia.

Mail dopo email, Guglielmo mi racconta il suo mondo e la sua avvincente storia. Da adolescente vince un concorso nazionale sbaragliando la concorrenza oltre 350mila concorrenti. Era il 30 novembre 1980. Alla XXII giornata Nazionale del Francobollo la sua opera che raffigura piazza Pola a Treviso sale sul gradino più alto del podio, facendo inoltre riprodurre da Poste Italiane  la città veneta su di un francobollo per la prima volta. Di lì in poi, tante esperienze, inclusa laurea in architettura e anche l’insegnamento al già citato Istituto dove ha luogo un corso triennale di Tecnico del Restauro di Beni Culturali.

Impossibile parlare di Guglielmo senza aprire una parentesi sulla sua famiglia. Nelle sue vene c’è molta arte. Le tre generazioni paterne prima di lui hanno lasciato il segno nel campo del restauro e del mantenimento degli affreschi nella città di Treviso, e non solo. Pittrice anche la mamma, nata e cresciuta negli Stati Uniti, a Pittsburgh, figlia di immigrati arrivati decenni prima, e poi tornata nel Bel paese, a Venezia, dove andò a studiare all’Accademia delle Belle Arti dove incontrò Guglielmo detto “Memi”. E fu amore. E fu matrimonio. E fu… Guglielmo.

Ogni artista ha qualche opera nel cuore. Tra le proprie creazioni, anche Guglielmo ha le sue preferenze, o meglio un sincero attaccamento. “Tutti i ponti di Pittsburgh offrono un differente approccio alla città. Di questi, quello del Fort Pitt Bridge Pitt è fantastico” analizza, “Provo a immaginare l'emozione di mia madre, allora ventitreenne, quando attraversò questo ponte, appena terminato nel giugno del 1959 a bordo della sua amata Dodge. Un disegno che ho rifiutato di cedere più volte perché mi lega profondamente al ricordo di mia madre che a Pittsburgh visse la sua gioventù fino al 1964, anno in cui venne in Italia a sposare papà”.

Si dice spesso che gli artisti non siano profeti in patria. Non è il caso di Guglielmo Botter. Oltre al già citato francobollo che gli ha reso un riconoscimento ufficiale nella piazza stessa della città veneta, un altro lavoro molto importante per la carriera, e la vita stessa dell’artista è la pianta prospettica della sua città natale. “Era dal primo decennio del 1800 che nessuno aveva più affrontato questo complesso tema a Treviso” racconta, “Quell'anno (1997), io e la mia fidanzata Paola avevamo deciso di sposarci.

Tra lavoro, preparativi per il grande giorno, trovai anche il tempo per iniziare un progetto che per troppo tempo avevo tenuto nel cassetto. Iniziai a disegnare la mia città dall'alto al modo delle antiche viste a volo d'uccello. L'impresa non fu facile perché in quegli anni il web era ancora agli albori e Google non esisteva. Ci vollero quasi quattro mesi per terminare l'opera basata su ricognizioni in loco, schizzi e foto (non digitali) scattate dall'alto della torre di piazza e dei campanili delle numerose chiese cittadine. Un’opera che nel tempo troverà sicuramente una giusta collocazione nell'iconografia della città di Treviso”.

Concludo col principio. Concludo questo excursus “microfonato” dell’artista con quello che a detta dello stesso protagonista, fu “Il primo disegno di una lunga serie ormai arrivata a superare il centinaio di viste della città. Quello che per me è e rimarrà il simbolo della mia esperienza americana”. Trattasi dell’opera “Downtown Pittsburgh: view from Heinz Lofts parking lot”, pubblicato nella prima pagina del Pittsburgh Post Gazette nonché  pluripremiato negli anni a seguire ottenendo premi e riconoscimenti in vari concorsi internazionali. Torno al principio. L'arte chiamava l'arte, scrissi. Adesso è tempo che l'arte ispiri altra arte...


C’È CHI TRAMANDA UN ROMBO TERRENO

Ho raffigurato un’affermazione
e ne sono stato risucchiato
dentro… La scarsa familiarità
con i messaggi di ricambio
mi ha sempre impedito
di restare sotto i grattacieli
troppo a lungo e le strade, quelle poi,
non mi hanno mai convinto
senza una fine dichiarata… Ci
vogliamo fermare
un momento e assecondare
questa monumentale
energia? Nel tuo immaginare
un passaggio
dai connotati materni
hai innescato
barchette di carte e bauli
pieni di scarpe… Qualcuno presto
arriverà per non farvi
più ritorno ma questo è solo
un pensiero ingigantito dalle vertigini
che ancora non mi trascurano
quando un nuovo istante
si rasserena dentro l'abbraccio cordiale
di una nuova città
C’è chi nasce, chi naviga… e chi narra
Sedersi a prendere appunti
al centro
di una strada non pedonale
sarebbe troppo facile
per attirare su di sé
la benevolenza delle stelle turchine
… dimenticavo,
oggi non ho voglia
di spiegarvi l’arcobaleno, oggi
sono impaziente
all’idea di restare muto
mentre una pioggia
di segni monocromatici
si spartiscono
il risultato della sua ispirazione.
Ancora un momento
e il colore sarà dannatamente 
ribollito… Adesso si, ci siamo presentati 
a dovere
(Venezia, 21 Novembre ’18)

Riding with the King by Eric Clapton & B.B. King


Pianta prospettica di Treviso – disegno a china di © Guglielmo Botter
Downtown Pittsburgh: view from Heinz Lofts parking lot -  – disegno a china di © Guglielmo Botter
Guglielmo Botter posa insieme ad alcune delle sue opere
Harrisburg (PA), South 2nd Street – disegno a china di © Guglielmo Botter

sabato 20 ottobre 2018

I pancake del sabato mattina

 Pancakes in padella, e poi preparati insieme a un ricco cappuccino e sciroppo d'acero © Luca Ferrari
Sarà che il Canada mi scorre dentro l’anima e il "pancino", per me la vera colazione è quella con i pancake fatti in casa e abbondante sciroppo d’acero. Buon weekend a tutti.

di Luca Ferrari

Lievito, cremor tartaro, lattefarina 00, burro, uova e ovviamente lui, lo sciroppo d'acero. Per fare i pancake servono questi semplici ingredienti. Non possono però mancare anche calma, relax e il tempo (abbondante) per gustarseli a dovere. La colazione coi pancake ormai è un must dei miei sabato e/o domenica mattina. Mai stato un fan dell'italiana tazzina al bar e via. Blasfemia pura. La colazione si fa a casa. La si gusta in relax con indosso ancora la fuliggine dei sogni sulle palpebre e se proprio volessimo strafare, l'ideale è accompagnare il tutto con una sana lettura cinematografica.

 Pancakes in preparazione © Luca Ferrari
 Pancakes in preparazione in padella © Luca Ferrari
 Pancakes in preparazione in padella © Luca Ferrari
 Pancake con sciroppo d'acero e il film I, Tonya © Luca Ferrari
Pancake con sciroppo d'acero © Luca Ferrari
Pancake con sciroppo d'acero © Luca Ferrari
Pancake con sciroppo d'acero e il film The Post © Luca Ferrari

giovedì 18 ottobre 2018

Venezia, la regata sprint della solidarietà

Canale di Cannaregio – regata sprint Trofeo Città di Venezia © Luca Ferrari
La voga alla veneta, sport simbolo della città di Venezia, scende in "acqua" nel nome della solidarietà per sostenere le associazioni di volontariato che operano sul territorio.

di Luca Ferrari 

Voga per la solidarietà. Domenica 14 ottobre è stata una giornata di festa a Venezia lungo le acque del canale di Cannaregio. Nel corso della mattinata infatti si è svolta la 13° edizione del Trofeo “Città di Venezia”, la regata sprint nel nome della solidarietà. Un evento promosso dall'associazione “Remiere Punta San Giobbe” a sostegno delle associazioni di volontariato operanti in città. “Una vera e propria gara" ha sottolineato il consigliere delegato per la tutela delle tradizioni del Comune di Venezia, Giovanni Giusto.

"Una regata sprint a cronometro individuale con tanto di giudici cronometristi e classifiche ufficiali in cui per una volta i veri protagonisti non sono gli atleti ma le associazioni di volontariato che essi rappresentano" ha poi ribadito, "Un'occasione speciale per far conoscere ai cittadini l'attività che queste svolgono e il ruolo essenziale che hanno nella vita della nostra città. La manifestazione inoltre sarà anche un grande volano per promuovere la voga alla veneta. Un modo di stare in barca unico al mondo. Una tradizione, e se vogliamo anche una filosofia di vita, patrimonio della sua storia, che Venezia non solo deve preservare ma divulgare sempre più (anche) tra le giovani generazioni”.

Aldilà di ciò che dice il calendario, questo ottobre veneziano pare più un eco primaverile che non un'ascesa autunnale. In acqua sono scesi nove equipaggi, uno per ognuna delle otto associazioni remiere presenti più un ultimo formato dai giovani vogatori veneziani più promettenti. Ogni equipaggio non rappresentava dunque la propria remiera di appartenenza ma una delle nove associazioni di volontariato sostenute, vestendone pure i colori. Nel dettaglio: Aita, Aido, Airc, Avapo, Amici del Cuore, AVIS - Associazione Volontari Donazione Sangue. Anffas, Ail e Alice. Ad aprire la manifestazione, le Pink Lioness, quindi la gara.

Canale di Cannaregio – le pink lioness © Luca Ferrari
Fondamenta di Cannaregio – gli stand delle associazioni di volontariato © Luca Ferrari
Canale di Cannaregio – regata sprint Trofeo Città di Venezia © Luca Ferrari
Canale di Cannaregio – regata sprint Trofeo Città di Venezia © Luca Ferrari
Canale di Cannaregio – regata sprint Trofeo Città di Venezia © Luca Ferrari
Canale di Cannaregio – regata sprint Trofeo Città di Venezia © Luca Ferrari
Canale di Cannaregio – regata sprint Trofeo Città di Venezia © Luca Ferrari
Canale di Cannaregio – regata sprint Trofeo Città di Venezia © Luca Ferrari
Canale di Cannaregio – regata sprint Trofeo Città di Venezia © Luca Ferrari

martedì 2 ottobre 2018

L'arte sacra dei Tolentini

Venezia, chiesa di San Nicola da Tolentino - monumento funebre Morosini © Luca Ferrari
Giornate Europee del Patrimonio 2018. A tu per tu con gli operatori dell'arte e della conservazione nella chiesa dei Tolentini, a Venezia. Un'esperienza davvero unica.

di Luca Ferrari

Venezia è viva. Venezia e la sua arte sono un tesoro inestimabile. Non basta internet. Non è sufficiente la televisione né l’entrare nella sola Basilica di San Marco. Ci vuole molto di più. Sabato 22 settembre, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio 2018, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, in collaborazione con l’Università Internazionale dell'Arte (UIA), è stata realizzata una lunga e appassionante incursione dentro la storia, l’iconografia e i recenti restauri della chiesa di San Nicola da Tolentino (vulgo dei Tolentini).

“La chiesa di San Nicola da Tolentino dovrebbe essere al centro di ogni percorso culturale di questa città” esordisce subito l’architetto Elisabetta Rosa Norbiato nella quiete del campiello dei Tolentini (sestiere di Santa Croce), prima di entrare in chiesa “La Soprintendenza ha il compito di tutela e conservazione del patrimonio. Avvalendosi della collaborazione dell’UIA con i suoi cantieri-scuola, è stato possibile seguire ogni singola fase dei molteplici interventi di restauro senza eccessiva fretta e beneficiando così, di una qualità molto rara nel campo dei lavori pubblici: la lentezza, intesa non come inefficienza ma riflessione”.

Il XVI secolo è stato un’epoca assai turbolenta per la Chiesa Cattolica: sacco di Roma, diaspora e riforma Luterana. Forti di un'inflessibile missione al servizio dei più deboli, l’Ordine dei Teatini, fondato da Gaetano Thiene poi diventato Santo, sbarcò in laguna deciso tanto a mantenere saldi i rapporti con la Città Eterna quanto a lasciare il segno nella Serenissima nel nome dell’impegno e dell’umiltà. Furono sufficienti pochi anni infatti ed ecco arrivare i primi lasciti delle famiglie nobili. A dispetto dell’accumulo di risorse, la congregazione rimase coerente con il proprio voto di povertà, atteggiamento questo che li farà mettere in luce tra le personalità di spicco di Venezia.

“I Teatini dunque cominciano a costruire la chiesa” spiega ancora la dott.ssa Norbiato, “In principio affidata a Vincenzo Scamozzi, l’architetto vicentino venne poi sostituito dal veneziano Andrea Tirali che completò l’opera con un pronao Palladiano arricchito da sei colonne corinzie e portando così l’opera sul piano neoclassico. Altra firma di prestigio nella chiesa, quella di Baldassarre Longhena che metterà la propria maestria al servizio dell’altar maggiore”.

I presenti ascoltano con evidente interesse e curiosità ma è solo l’inizio. Salgono (davvero) di livello le emozioni quando ci viene permesso in via eccezionale per le Giornate Europee del Patrimonio, di avvicinarci all’altar maggiore e dunque trovarsi a un palmo di naso dall’imponente monumento funerario del patriarca Francesco Morosini. “Senza dubbio l’episodio più spettacolare e innovativo dal punto di vista del linguaggio scultoreo” chiarisce subito la storica dell’arte, dott.ssa Giulia Altissimo.

Realizzato nel XVII secolo mentre il Morosini era ancora in vita, come specifica l’iscrizione in basso, il monumento ha una struttura piramidale complessa. Autore dell’opera, il genovese Filippo Parodi. “Non è un dettaglio indifferente” chiarisce la dott.ssa Altissimo, “Caratteristica dell’Ordine dei Teatini infatti, il rivolgersi ad artisti foresti. Sulle tracce del Bernini, il monumento è a dir poco grandioso, lanciando il Patriarca verso la vita eterna incarnata da San Marco”.

Il lavoro ai Tolentini ha fatto emergere un ulteriore e importante dettaglio, quello della percezione collettiva. “Il restauro è una disciplina che si deve confrontare anche con il gusto del pubblico” ha poi concluso la funzionaria della Soprintendenza, “Per le opere più grandi della storia dell’arte esiste un protocollo internazionale che prevede, proprio in caso di restauri, il mostrarlo in corso d’opera, e a più riprese. In questo modo le persone si potranno abituare gradualmente alla versione restaurata. Nel caso della chiesa dei Tolentini, sulle finiture affrescate delle pareti della chiesa è stato rinvenuto uno strato intermedio di ocra-dorato sotto il grigio-azzurro. Dopo accurati ragionamenti tra più soggetti, è stato deciso di non farlo emergere lasciandolo disponibile per un suo eventuale utilizzo futuro”.

Le chiese sono degli organismi molto delicati e solo una porzione di esse è disponibile per le visite. Oggi no. Il senso delle Giornate Europee del Patrimonio 2018 è anche questo: far avvicinare davvero la gente all’arte e la sua storia, passata e presente, facendogliela quasi toccare (e si ribadisce quasi, ndr). Poste queste doverose premesse, l’esperta restauratrice e docente dell’Università Internazionale dell’Arte, Natascia Girardi, ci prende per mano conducendoci dietro l’altar maggiore. Lì inizia il suo viaggio, carica di quella passione per il proprio lavoro che traspare in ogni minuziosa descrizione che ha voluto condividere.

Il restauro è un lavoro di squadra” esordisce, “I cantieri-scuola dell’UIA rappresentano un’opportunità di sperimentazione, analisi critica ed esecuzione. Una delle primissime e fondamentali operazioni in un lavoro di restauro è l’identificazione dei materiali che compongono l’opera. Sul monumento Morosini abbiamo riscontrato un vero e proprio palinsesto di materiali, che dal punto di vista conservativo è talvolta sinonimo di grossi problemi di intervento poiché i suddetti si muovono tra loro in modo distinto e subiscono inoltre le sollecitazioni derivanti dalla struttura architettonica”.

“Tra le peculiarità di questo lavoro ai Tolentini” ha poi proseguito la stessa, “ci siamo trovati a mettere mano sullo stucco forte costituito da calcite, gesso, magnesite e aggregati lapidei, silicei e cocciopesto. Capire come procedere non è stato semplice. Abbiamo dovuto ragionare con la Soprintendenza. La grande parasta, che a prima vista sembrava un unico blocco nero, in realtà trattasi di più lastre di un marmo rosso genovese. Altra tecnica rivelatasi in corso d’opera, la doratura a missione: una tecnica che prevede la stesura di una lamina metallica fatta aderire, per mezzo di una colla e/o di un olio, direttamente al supporto preventivamente preparata con bolo rosso (argilla).

Mi estraneo qualche minuto. Sento un fortissimo richiamo al celeberrimo Libro dell’arte di Cennino Cennini e tutte le sue “ricette” di tecniche pittoriche (ma non solo). Il mondo lì fuori è in costante fermento. In questo momento staranno di sicuro nascendo nuove applicazioni e dalle varie Cupertino nuove funzionalità a portata di touch che tutti a breve si appresteranno a utilizzare. Qui invece, raccolto nel presbiterio della Chiesa dei Tolentini a Venezia, c’è la vera condivisione di un sapere antico, oggigiorno sempre più vitale per mantenere in vita l’opera secolare dell’essere umano.

Natascia Girardi entra poi nel merito anche degli studenti che iniziano la loro attività di tecnico del restauro di beni culturali sotto la sua guida e degli altri docenti in forza alla scuola che ha sede nell’isola della Giudecca. "Tutte queste persone che formiamo in UIA hanno grandi capacità ma soprattutto una grande possibilità: lavorare sulle opere d’arte. Al termine del triennio formativo gli studenti acquisiscono l’Attestato di qualifica professionale eligibile  nel mondo del lavoro, sia in Italia che all’estero".

Nell’immaginario collettivo, quando si parla di restauro, si pensa subito tuta bianca, spatolina e maschera. Una visione questa assai striminzita, non realizzando quanto lavoro ci sia prima e durante, oltre ovviamente all’attività manuale sui ponteggi. “Tra le prime fasi condotte ai Tolentini, c’è stata la campionatura che ci ha permesso di capire  il comportamento dei materiali”, ha sottolineato Natascia Girardi, “Le tavole tematiche sono fondamentali per documentare l’attività svolta. Oltre a rimanere agli atti, servono anche per chiarire alcuni aspetti dell’opera che ai più non è dato conoscere. L’entusiasmo tra gli studenti è sempre tantissimo, ed è l’opera stessa a darlo a tutti noi. La possibilità di starle vicino. La possibilità di studiarla e conservarla”.

Approfittando di un piccolo break-domanda, mi avvicino ancora al monumento funebre del Morosini. Degno tributo a un uomo il cui Patriarcato durò per oltre trent’anni dal 1644 al 1678. Gli sono davanti. La mia macchina professionale è appoggiata nella sua custodia a terra. Le comunicazioni con l’esterno sono azzerate. Adesso ci siamo solo noi, io e l'arte. Non voglio appunti. Non voglio dettagli. M'interrogo. Afferro i miei pensieri. Li vedo penetrare il materiale lapideo e uscirne ancora più incuriositi e affascinati. Guardo la Storia. L’ascolto. Sento le giornate susseguirsi. I rumori del passato votati all’immortalità. Sono passati più di 300 anni da quando venne realizzato e chissà chi ci sarà al mio posto tra altrettanto tempo, a farsi ispirare.

Tra gli intervenuti ai Tolentini in occasione di questa straordinaria visita della chiesa, oltre a ex-studenti che hanno direttamente lavorato sull’apparato decorativo del transetto e altri tutt’ora iscritti, c’è anche il docente (UIA) di fotografia diagnostica Erio Gardan, che disponibile, ha fatto luce su un altro importante aspetto. “Andiamo a rivelare i problemi per dare la possibilità ai restauratori di valutare anche con la fotografia quale sia l’entità del danno e dello stato attuale. Dobbiamo restituire quello che è. Non dobbiamo inventare nulla”.

“Non va sottaciuto poi il problema della funzionalità del cantiere di restauro” ha analizzato l’architetto Giovanna Ferrari, direttore dei lavori “Si deve convivere con la funzionalità, le celebrazioni religiose e la comunità dei parrocchiani. Va calcolato il periodo, la tempistica e la conformazione per cercare di trovare una certa armonizzazione. Sull’opera non ci deve essere la mano di un’artista ma quella umile e attenta di un professionista che cerca di ridare vita a qualcosa che la vita sta spegnendo. Questo è il segreto del bravo restauratore”.

“Molto importanti sono anche i ponteggi” prosegue, “Strutture speciali che devono avere apposite normative di sicurezza a tutela dei restauratori e di tutti coloro che ci dovranno passare. Qui sono saliti (e saliranno ancora) studenti che non hanno mai avuto prima esperienze di lavoro simili. È compito nostro educarli al corretto approccio agli strumenti, all’educazione dei movimenti e dell’attenzione, nell’abbigliamento, al comportamento più consono e alla prudenza. Tutto questo conciliandolo con la delicata attività che devono svolgere”.

Il pubblico è abituato a studiare l’arte senza troppo indagarla. Si documenta sul tipo di pianta. Le opere degli artisti presenti in essa. L’architetto che realizzò il progetto. Eventualmente le tecniche decorative e pittoriche. C’è moltissimo di più. C’è un universo di informazioni capace di far davvero innamorare dell’arte. Come ha sottolineato l’architetto Norbiato, “La differenza la fanno le persone”. Non potrei essere più d’accordo. Se sono qui, oggi, a raccontarvi questo intenso momento di condivisione artistica delle Giornate Europee del Patrimonio dalla chiesa di San Nicola da Tolentino a Venezia, il merito è tutto dei protagonisti che mi hanno davvero lasciato qualcosa dentro e sono certo, duraturo nel tempo. Proprio come un battistero ben realizzato e un successivo restauro altrettanto ben eseguito.

Venezia, l'interno della chiesa di San Nicola da Tolentino © Luca Ferrari
Veneziachiesa dei Tolentini - il monumento funebre del Patriarca F. Morosini © Luca Ferrari
Venezia, chiesa di San Nicola da Tolentino - (da sx)
la storica dell'arte Giulia Altissimo, gli architetti Elisabetta Rosa Norbiato e Giovanna Ferrari © Luca Ferrari
Venezia, chiesa di San Nicola da Tolentino - dettaglio monumento funebre Morosini © Luca Ferrari
Venezia, chiesa di San Nicola da Tolentino - altar maggiore  © Luca Ferrari
Venezia, chiesa di San Nicola da Tolentino - tavole tematiche dei giovani tecnici del restauro © Luca Ferrari